Il titolo, “Progettiamo il rilancio”, contiene un verbo, “progettare”, che richiede competenze poco frequenti nel mondo della politica. E un sostantivo, “rilancio”, già utilizzato per un decreto semi fallimentare: dai numeri ridicoli delle regolarizzazioni dei migranti al “super-ecobonus” per l’edilizia, che senza correttivi importanti, come quelli suggeriti da Legambiente e Fillea, rischia di fare felici soltanto gli speculatori, con imprese pronte a “gonfiare” preventivi e costi. Leggendo le schede della presidenza del Consiglio per gli “Stati generali dell’economia”, mi è tornato, così, in mente un diffuso detto popolare: parla come mangi. Non solo semplicemente, ma soprattutto di quello che conosci davvero.
Sarei curioso di sapere, per esempio, quali sono per chi ha preparato la scheda, le differenze tra i due aggettivi utilizzati nel titolo: “Un paese più verde e sostenibile”. O quelle che intravede, sempre nella stessa scheda, tra “economia circolare” (ignorata nelle slide sulle filiere produttive italiane, pur vantando il nostro Paese numeri da primato europeo) e “Green economy”. Ho il sospetto, temo fondato, che si tratti di parole entrate ormai in una sorta di “slang” a cui si fa ricorso senza sapere esattamente di che cosa si stia parlando. Solo perché è di moda. Fa “figo”.
Un’altra spia dell’approssimazione culturale che regna nelle “stanze del Potere” si accende nella slide “Un paese con infrastrutture più sicure ed efficienti”, dove figurano il “rilancio dell’edilizia urbana e rurale”, quello dell’impiantistica sportiva ma non gli interventi sui disastrati e insicuri edifici scolastici del nostro Paese. La cui “modernizzazione”, altro termine abusato, spunta nella slide “Investiamo nella formazione e nella ricerca” ma all’ultimo posto dopo “Cooperazione internazionale nella ricerca”. Quasi che qualcuno, rileggendola, si sia detto: cacchio, manca l’edilizia scolastica!
Va ancora peggio con un’altra leva fondamentale della transizione ecologica, sia della pubblica amministrazione che del sistema imprenditoriale: il green public procurement, in sigla Gpp. L’Italia è l’unico Paese europeo ad aver introdotto nel 2016 l’obbligo di adottare i Criteri ambientali minimi in tutte le gare d’appalto per l’acquisto di beni e servizi. Ma chi ha scritto le due slide dedicate al “Piano integrato di sostegno alle filiere produttive italiane” evidentemente non lo sa. E del Gpp non c’è traccia. Stessa sorte anche per gli strumenti della finanza sostenibile, dai green bond, a cui fa ricorso persino la Banca d’Italia, ai social impact bond.
Non era andata troppo bene neppure con il famoso “Piano Colao”, dove la voce “sviluppo sostenibile” è stata declinata come “sostegno al Terzo settore”. Fa quasi tristezza pensare alla definizione che ne diede nel 1987 la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite, nel rapporto “Our common future”: il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Una rivoluzione, se pensiamo che ogni anno il cosiddetto “Overshoot day”, cioè il giorno in cui consumiamo le risorse che la Terra è in grado di rigenerare, arriva sempre prima.
Peccato, perché mai come in questa difficilissima era della convivenza con il coronavirus è stato così frequente e significativo, in documenti e interventi istituzionali, il ricorso a termini come “rivoluzione verde”, “green deal”, “transizione energetica”. Dovrebbero alimentare le speranze di chi, a partire dai giovani dei Friday for future, pretende cambiamenti immediati, concreti e misurabili. E invece rischiano di essere svuotati di senso, trasformati nel vocabolario “soporifero” con cui stemperare gli inevitabili conflitti tra interessi diversi che la politica e il mondo delle imprese hanno il dovere di affrontare, facendo le scelte giuste e con la necessaria radicalità. È una sfida che riguarda anche noi, chiamati a conoscere meglio le conseguenze dei nostri stili di vita e le alternative possibili. Con la differenza che non abbiamo la responsabilità di governare un Paese.