Innanzitutto devo scusarmi con le lettrici e i lettori più affezionati di queste note settimanali per il ritardo nella loro pubblicazione. Dovuto al tentativo, purtroppo fallito, di migliorare il decreto Liquidità, a cui mi sono dedicato ieri mattina insieme al gruppo di lavoro del patto GiustaItalia, promosso da Libera con numerose associazioni, a cominciare da Legambiente, Cgil, Cisl e Uil, i sindaci di Avviso Pubblico. L’obiettivo, ambizioso, era quello di restituire un minimo di logica ai criteri con cui escludere alcune categorie di imprenditori dai benefici previsti dal decreto (finanziamenti dalle banche garantiti dallo Stato). Ma non c’è stato niente da fare. Non è la prima volta, del resto, che le torsioni con cui è nata l’attuale maggioranza di governo provocano imbarazzanti approssimazioni. Né, temo, sarà l’ultima.
La vicenda del decreto Liquidità è davvero emblematica dello stato confusionale con cui la nostra classe politica, fatte sempre le dovute ma purtroppo rare eccezioni, sta affrontando la drammatica emergenza coronavirus. Frutto, come ho già scritto in precedenti post, di un vuoto di visione e di presuntuosi deficit di competenze.
Cominciamo dall’inizio. Lo scorso 8 aprile il governo Conte approva un decreto che spalanca, formalmente, la porta delle banche a qualsiasi imprenditore abbia bisogno di finanziamenti. Senza nessun tipo di controllo e nessun obbligo di rendere tracciabile l’uso delle risorse che riceve, garantite dallo Stato. Si annunciano numeri roboanti, fino a 200 miliardi di euro di liquidità che verrebbero iniettati nel sistema economico. Rapidamente e senza condizioni. Due giorni dopo, è quasi umiliante per il nostro Paese dover leggere su “Repubblica” la lettera aperta del procuratore di Milano Francesco Greco e di quello di Napoli, Giovanni Melillo: “Nessun strumento tecnico-giuridico è previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose. Un rischio assai concreto, avendo ben chiare le reali dimensioni dell’espansione affaristica propria delle componenti più raffinate dei circuiti dell’influenza mafiosa, che non solo non aiuta a spiegare la sostanziale rinuncia ai tradizionali controlli prefettizi ma che sembra finanche accettato con rassegnazione”. Già, perché in fondo con la mafia, come ebbe a dire nel 2001 un dimenticato ministro dei Lavori pubblici dell’era Berlusconi, Pietro Lunardi, si convive.
Dal qual giorno è stato un susseguirsi di allarmi, dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho alla Banca d’Italia. Legambiente denuncia anche il rischio che a beneficiare di quegli stessi finanziamenti garantiti dallo Stato siano imprenditori responsabili di gravi delitti contro l’ambiente, ricevendo pubbliche rassicurazioni dal capogruppo alla Camera del Partito democratico, Graziano Delrio: “Raccolgo l’allarme di Legambiente. In Parlamento non consentiremo che un solo euro finisca in mano di chi ha commesso reati contro l’ambiente. Nessuno deve sfruttare l’emergenza per interessi poco trasparenti” (tweet delle ore 8.36 del 17 aprile 2020). Parole scritte sull’acqua, come vedremo
Insieme al gruppo di lavoro di GiustaItalia, ci affanniamo in quei giorni a scrivere gli emendamenti da proporre ai parlamentari che condividevano quelle preoccupazioni. Il meccanismo è semplice: introdurre una serie di reati, da quelli di mafia alla corruzione, dai delitti ambientali all’evasione fiscale che determinano l’esclusione dai benefici di imprenditori condannati con sentenze di primo grado; escludere in ogni caso le imprese che hanno sede nei paradisi fiscali e prevedere stringenti meccanismi di tracciabilità. Gli emendamenti vengono presentati, da numerosi parlamentari di maggioranza, dal Pd a Leu, che evidentemente li condividono. E domenica 17 maggio arriva anche una buona notizia: viene approvato quello che evita almeno lo scandalo di finanziamenti garantiti dallo Stato ad imprese con sede legale nei Paesi che l’Unione europea definisce “non cooperativi a fini fiscali”. Non sono moltissimi, appena 12 dopo l’ultimo aggiornamento (Figi, Oman, Samoa, Trinidad e Tobago, Vanuatu, Isole Cayman, Palau, Panama, Seychelles e tre territori statunitensi, Samoa americane, Guam e Isole Vergini americane) ma sempre meglio di niente, com’era originariamente nel decreto approvato dal governo.
Lo stesso giorno, il decreto Liquidità si inabissa e gli emendamenti vengono accantonati. Il confronto si trasferisce altrove, in stanze meno pubbliche, dove non ci sono resoconti parlamentari da consultare. Due giorni dopo, quando la “nebbia” sul destino degli emendamenti è ancora fitta, con il patto GiustaItalia esprimiamo la nostra “forte preoccupazione”, perché “si sta scegliendo la strada di depotenziare diritti fondamentali, la possibilità di vivere in un ambiente pulito e di tutelare concretamente le imprese sane del Paese”. Purtroppo siamo stati facili profeti.
Venerdì 22 maggio, nella riunione delle Commissioni Finanze e Attività produttive della Camera che stanno esaminando insieme il decreto, arriva la “riformulazione” del cuore del provvedimento, diventato l’art. 1 bis. A prendere le distanze, con parole nette, è il presidente della Commissione Finanze, Raffaele Trano, ex M5S, ora al Gruppo Misto. Il nuovo testo, a suo avviso, “ignora completamente le preoccupazioni allarmate espresse dalla magistratura ed emerse, in modo particolare, nel corso delle audizioni svolte del procuratore antimafia De Raho e dei procuratori della Repubblica di Milano e Napoli, Greco e Melillo”.
Sempre insieme al gruppo di lavoro di GiustaItalia ci prendiamo il tempo necessario per leggere il testo. Viene introdotta una semplice autocertificazione, in cui è l’imprenditore che deve dichiarare di non aver subito i provvedimenti definitivi previsti dalle misure di prevenzione regolate dal codice antimafia. O di non aver subito condanne definitive negli ultimi 5 anni, per reati fiscali ma con l’aggravante dell’interdizione dai pubblici uffici. L’autocertificazione, su cui ovviamente la banca non ha alcun potere o facoltà di controllo, viene trasmessa alla Sace spa, la società pubblica che garantisce i finanziamenti. La quale Sace, però, allo stato attuale non ha né gli strumenti ma neppure i poteri per fare i controlli che non fanno le banche. Si provvederà con un “Protocollo d’intesa”, che dovrà essere sottoscritto tra la stessa Sace, il ministero dell’Interno e quello delle Finanze. Intanto i finanziamenti, magari in ritardo e a singhiozzo, continuano ad essere erogati dalle banche, con la garanzia dello Stato e senza alcun controllo.
Ieri mattina, invece di scrivere questa nota settimanale, ho lavorato anche io al tentativo disperato di ricondurre alla ragione il governo e la maggioranza che lo sostiene. Senza stravolgere un accordo che pure non condividiamo, ma semplicemente estendendo gli stessi criteri previsti per gli evasosi fiscali anche a chi ha subito, negli ultimi cinque anni, sentenze di condanne definitive per reati gravi, dalla corruzione ai delitti contro l’ambiente. Ne più ne meno di quello che si era solennemente impegnato a fare il capogruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio. Con quale criterio, infatti, si escludono gli evasori e si includono corruttori e inquinatori? L’unica, comprensibile, motivazione l’ho trovata in un passaggio dell’intervento in aula di un deputato del Pd, Raffaele Topo: “Dobbiamo scegliere: meglio accelerare, prendendosi il rischio di qualche errore nell’erogazione piuttosto che collassare il sistema”. E’ esattamente quello che si doveva impedire, evitando di sostenere con risorse pubbliche imprese rimaste in piedi perché inserite nei “raffinati circuiti dell’influenza mafiosa”, oppure perché guidate da imprenditori senza scrupoli, corruttori e inquinatori. Ma cosa volete che siano le competenze, l’esperienza maturata ogni giorno nella vita reale del Paese per contrastare mafie, corruzione, criminalità ambientale da associazioni come Libera e Legambiente, organizzazioni sindacali come la Cgil, amministratori come i sindaci di Avviso pubblico, di fronte a quelle dell’on. Topo e dei suoi illustri colleghi?
#lagiustaripartenza.