Quella che comincia oggi sarà, psicologicamente, la settimana più difficile da quando è cominciata la pandemia. Aspetterò con ansia i numeri del contagio in Italia, sperando, com’è successo ieri, che quelli delle vittime continuino a scendere sempre più velocemente. Se dovesse accadere, lo so già, avrò una reazione euforica perché sentirò più vicino il giorno della liberazione. E invece per la prima volta nella mia vita sarò costretto a trascorrere chiuso in casa sia la domenica di Pasqua sia, a prescindere dal sole o dalla pioggia, il lunedì di Pasquetta.

A ricordarmi che ci vorrà ancora molto tempo prima di vincere la sfida con la Sars-cov-2 saranno le immagini di tutte le persone che prima in Lombardia, poi in Toscana e quindi, inevitabilmente, nel resto del Paese potranno uscire dalle loro abitazioni, per ragioni di necessità, solo indossando una mascherina. Ma a preoccuparmi saranno soprattutto le notizie che continueranno ad arrivare dal resto del mondo, con la crescita impressionante di vittime ovunque, tranne che, speriamo, da noi e forse in Spagna.
Seguirò con apprensione le decisioni che verranno prese questa settimana dal nostro governo, con il contributo, speriamo, delle forze politiche di opposizione e di tutte le organizzazioni sociali, da quelle di categoria ai sindacati e al Terzo settore. E attenderò, ma sperandoci poco, che l’Europa ritrovi sè stessa. Lo farò con la speranza che dopo il 13 aprile cominci finalmente quella che tutti chiamano la “fase 2”, anche se nessuno sa ancora esattamente cosa voglia dire.
Una mia cara amica, Alma, ha scritto giorni fa un post che mi ha fatto riflettere su un errore, grave, di linguaggio che facevo anche io, paragonando a una guerra quello che sto vivendo. Costretto in casa, ma con la possibilità di uscire a fare la spesa, lavorare con il mio computer, incontrare, grazie a whatsapp, familiari e amici, condividere dirette facebook e così via. Nulla a che vedere con la guerra vera, come quella combattuta in Italia contro il nazismo e il fascismo o quella che subiscono ancora oggi le popolazioni civili in Siria, Yemen, Libia, tra case e città distrutte dalle bombe, milioni di profughi e centinaia di migliaia di morti.
Ci sono sostantivi, però, come liberazione e ricostruzione, che ricorrono alla stessa maniera. Per le persone più fragili, quelle che già vivevano in condizioni di disagio e di povertà, se ne aggiunge un’altra: sopravvivenza. Che vale anche per moltissime imprese. E, infine, ce n’è una che sto usando molto, in questo primo post della settimana più lunga da quando è esplosa la pandemia: speranza. E’ la stessa parola che dà un senso universale alla resurrezione della Pasqua, al di là della fede di ognuno. Con una radice etimologica molto più antica della “spes” latina: il sanscrito “spa”, che significava “tendere verso una meta”. Non avere fiducia che accada in futuro qualcosa di buono, ma adoperarsi perché possa avvenire. Restare a casa, insomma, è il nostro modo di alimentare la speranza in questa difficile settimana, dare un contributo alla liberazione dal coronavirus e lavorare, per quello che ognuno di noi può fare, alla ricostruzione. Daje!
#quellocolbongo.