Cinquantaduesimo giorno (-3)

Quello di oggi sarebbe stato un Primo maggio diverso per buona parte dei 600.000 immigrati senza permesso di soggiorno presenti nel nostro Paese se il governo avesse trovato il tempo di approvare il decreto, più volte annunciato da ministri e sottosegretari, che ne prevede la regolarizzazione, a fronte di un contratto di lavoro. Almeno per quelli che già vengono sfruttati, in nero, nei “settori dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca, e dell’acquacoltura”, come prevede una bozza circolata in Parlamento e di cui si sono perse le tracce.

Memoriale della strage di Portella della Ginestra, wikimafia.it

Alle vicende dei migranti, costretti a lavorare in condizioni molto simili alla schiavitù nei campi del nostro Paese, è stata dedicata, nelle scorse settimane, un’importante attenzione, anche mediatica. Ma non per i loro diritti, impunemente violati. Gli “invisibili” sono tornati tra noi perché è scattato l’allarme rosso sul rischio di non avere i braccianti necessari per garantire i raccolti, a causa delle frontiere bloccate dalla pandemia causata dal coronavirus. È stato un susseguirsi di appelli, lanciati innanzitutto dalle associazioni di categoria, come Coldiretti e Confagricoltura. A cui hanno cercato di “agganciarsi”, giustamente, quelle realtà che cercano da anni di rompere il muro di ipocrisia costruito intorno ai ghetti, dove sopravvivono migliaia di questi lavoratori. Come la rete “Ero straniero” (promossa da Arci, Acli, Legambiente, ActionAid, Oxafam, Radicali Italia, Federazione delle chiese evangeliche, insieme a decine di associazioni e sindacati), che attende dal 2017 l’esame del disegno di legge d’iniziativa popolare sulla regolarizzazione degli immigrati, firmato da 90.000 cittadini. Oppure come l’associazione Terra! e la Flai Cgil, che tutela i lavoratori dell’agroalimentare, promotrici, il 20 marzo scorso, di un appello al governo firmato, tra gli altri, dall’Elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, e da don Luigi Ciotti, presidente di Libera. O, ancora, come il sindacalista Aboubakar Soumahoro, che ha lanciato su change.org la petizione “Diritti e dignità per le persone invisibili”, rivolta a Giuseppe Conte, con oltre 40.000 firme raccolte. Finora invano.

Gli appelli dei braccianti immigrati di oggi e di chi ne difende i diritti non sono molto diversi da quelli che lanciava ogni primo maggio, a partire dal 1893, Nicola Barbato, rappresentante del sindacato di allora, i “Fasci siciliani dei lavoratori”, in piedi su quello che sarebbe diventato il “Sasso di Barbato”, nella piana di Portella della Ginestra. Lo stesso “Sasso” intorno al quale, il Primo maggio del 1947 si erano radunati migliaia di agricoltori per ascoltare il calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Iato, in provincia di Palermo, chiamato a sostituire l’on. Girolamo Li Causi. Volevano festeggiare la vittoria della sinistra (il Blocco del Popolo, composto da Psi, Pci e Partito d’Azione) alle prime elezioni regionali siciliane dopo la liberazione dal nazifascismo e rivendicare il diritto alla terra, insieme al giusto salario e a condizioni di vita dignitose. Ne furono uccisi, a colpi di mitra, dodici, come ricorda vivi.libera.it, con decine di feriti. La vittima più piccola, Vincenza la Fata, aveva 8 anni.

Una strage di Stato, la prima, rimasta senza verità sui mandanti e per la quale vennero condannati i componenti della cosiddetta “banda Giuliano”, dal nome del capo, Salvatore, morto nel 1950, anche lui in circostanze mai chiarite davvero. Allora, gli interessi della mafia si saldarono con quelli dei latifondisti siciliani che non volevano perdere il loro potere. E alimentarono una strategia del terrore che insanguinò a lungo la Sicilia, con il risultato di ricacciare indietro, eliminandone fisicamente i protagonisti (36 sindacalisti uccisi in quattro anni, tra cui Placido Rizzotto), la voglia di cambiamento.

Capita ancora oggi che vengano uccisi sindacalisti e braccianti, impegnati a difendere i loro diritti nei ghetti degli “invisibili”. Hanno origini e nomi diversi, come Hyso Telharaj, albanese, brutalmente pestato l’8 settembre del 1999 a Borgo Incoronata, una frazione del Comune di Foggia. O Soumaila Sacko, originario del Mali, ucciso con un colpo di fucile il 2 giugno del 2018 a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. Ma a fare ancora più male, rispetto a 73 anni fa, sono l’indifferenza di troppi e gli impegni che non vengono mantenuti.

Buon Primo maggio!

#quellocolbongo

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