Questa pagina del Diario è dedicata a mia moglie, medico di famiglia, che non ha mai smesso di lavorare anche durante il lockdown. E insieme a lei, a tutte le donne competenti, impegnate, coraggiose che questo Paese continua a ignorare. Come quelle che oggi hanno deciso di indossare la mascherina scrivendoci sopra #Datecivoce.
A far scattare il loro flashmob è stato, insieme a una vissuta consapevolezza, il lavoro prezioso della Fondazione Openpolis, che ha monitorato il ruolo delle donne in tutte le strutture, preesistenti e nuove, che stanno gestendo l’emergenza Covid-19. Ne è venuta fuori una mappa del potere composta da 1.400 persone, distribuite su 5 categorie: prefetture, direttori generali o commissari delle aziende sanitarie e ospedaliere, assessori regionali alla Sanità e alla Protezione civile, organismi regionali create ad hoc, strutture, organismi e task force nazionali. La presenza media delle donne è del 20%. Già così, imbarazzante. Ma non basta: più si sale nella scala gerarchica e più si riduce, fino ad azzerarsi. Se nelle Prefetture, infatti, la presenza di donne, nominate prima dell’emergenza, è del 39,05%, nelle strutture nazionali crolla al 16,74%. Fino al desolante 0% del cruciale “Comitato tecnico-scientifico presso la Protezione civile”, quello che sta decidendo, di fatto, le regole della nostra vita quotidiana.
Letta così la realtà di chi frequenta le stanze del potere, non ci si può stupire se, soltanto per fare un esempio, i bambini siano scomparsi dall’orizzonte dei famigerati Dpcm. Oppure se, immaginando la riapertura delle attività produttive, l’unica soluzione prevista finora, di fatto, è quella di far restare le donne a casa. Il 72,4% delle persone che tornerà a lavorare da lunedì sono uomini, con il risultato, come scrivono Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio su lavoce.info di “caricare di ulteriori compiti di cura le donne all’interno delle famiglie, rischiando di ridurre ancora di più la loro offerta di lavoro, già minata dalla chiusura delle scuole e dalla assenza di alternative credibili alla gestione diretta dei carichi familiari”. Ma non è neppure un caso se, restando sempre nell’ambito dell’attenzione alla qualità della vita e alla cura delle persone, si sia dovuto attendere l’ultimo decreto per trovare un articolo dedicato alla disabilità. Una ricerca pubblicata nel 2018 dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, in collaborazione con Farmindustria, ha rivelato come a prendersi cura quotidianamente di figli, mariti, genitori, partner disabili o anziani siano 86 donne su 100 (disabili.com). Sono le “caregiver” invisibili per chi ci governa, che associa la parola “badante” solo a chi lo fa per professione, spesso in realtà in nero e senza neppure permesso di soggiorno.
Come mia moglie, sarà donna anche il 60% dei medici di famiglia, come ha raccontato Tommasa Maio, alla guida della Fimmg “Continuità assistenziale” nell’ultimo congresso della Federazione (sanitainformazione.it). Peccato che percepiscano dall’8% (medici di famiglia) al 16% in meno (medici di continuità assistenziale) dei loro colleghi maschi, perché “tendono di più ad autolimitarsi”, spiega la Maio, per “la necessità di dover scegliere e sacrificare almeno in parte le attività professionali, ancora una volta per reggere l’altro sistema, quello familiare”.
Non sono certo io a poter dire se sono riuscito o meno a ridurre questo gap nella mia famiglia. E non voglio neppure sembrare ruffianamente “solidale”. Ma in questi 53 giorni di isolamento in casa, faccende domestiche a parte, ho visto e ascoltato mia moglie lavorare come non mi era mai capitato prima. Avevo già la convinzione che la responsabilità dei disastri con cui ci dobbiamo misurare fosse del genere maschile. Ora ho, ancora di più, la certezza che le soluzioni giuste potranno arrivare solo dando voce e potere alle donne. Post scritptum. Lo studio di Alessandra Casarico, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi, e Salvatore Lattanzio, che sta svolgendo un dottorato di ricerca in economia all’Università di Cambridge, rivela un’altra ipocrisia di questa “Fase della Transizione iniziale”: la percentuale più alta di chi resterà comunque a casa, perché le attività economiche che li riguardano non riapriranno, è quella dei giovani (33,5%). Alla faccia delle infinite discussioni fatte nei giorni scorsi sui possibili vantaggi di una loro maggiore resistenza al virus.
#quellocolbongo