Trentasettesimo giorno

La domanda sorge spontanea, avrebbe detto l’indimenticabile Antonio Lubrano, a commento di una delle sue tante inchieste in tv sull’Italia dei truffati (e dei truffatori): “è possibile fare in modo che la più poderosa delle manovre di immissione di liquidità nel mercato delle imprese (quella prevista dal decreto n. 23 dello scorso 8 aprile, ndr) non apra la strada a sistematici abusi e ruberie?”. Solo che questa volta a farla, testualmente, dalle pagine di Repubblica sono due dei più importanti magistrati italiani, che guidano le procure di Milano e Napoli: rispettivamente Francesco Greco e Giovanni Melillo. La risposta è semplice: sì, ma non c’hanno pensato.

Greco e Melillo guidano due uffici giudiziari in cui le inchieste hanno, da tempo, svelato quanto siano profondi gli intrecci tra mafie, corruzione, evasione fiscale, riciclaggio, ma anche traffici illegali di rifiuti. Lo scrivono con chiarezza in una lettera pubblicata lo scorso 11 aprile: nel nostro Paese “il crimine organizzato, la corruzione e l’evasione fiscale sono connotazioni strutturali di ampia parte del tessuto sociale ed economico”. E il governo cosa fa, quando approva il decreto “Liquidità” con cui impegna lo Stato a garantire un imponente flusso di credito, pari a 400 miliardi di euro, verso le imprese messe in ginocchio dal Covid 19? Abdica, di fatto, a qualsiasi forma di controllo preventivo.

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“Nessun strumento tecnico-giuridico è previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose”, scrivono quasi con amarezza Greco e Melillo. Anche perché si tratta, come dovrebbe sapere pure chi il decreto Liquidità lo ha scritto, di “un rischio assai concreto, avendo ben chiare le reali dimensioni dell’espansione affaristica propria delle componenti più raffinate dei circuiti di influenza mafiosa”. Non è prevista neppure una banalissima autocertificazione, con la quale chiedere “all’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale”. E, ci permettiamo di aggiungere noi, per quei gravi delitti ambientali inseriti dal 2015 nel nostro Codice penale, grazie al testardo lavoro fatto da Legambiente per 21 anni, con la pubblicazione annuale del Rapporto Ecomafia: inquinamento e disastro ambientale, omessa bonifica, traffico illecito di rifiuti (già in vigore dal 2001), solo per citare quelli più significativi. Tutti reati d’impresa. L’eventuale falsità dell’autodichiarazione, aggiungono Greco e Melillo, sarebbe stata “agevolmente verificabile e gravemente sanzionabile”.

Non basta. Un caro amico che lavora in un importante istituto di credito, occupandosi proprio di verificare, l’affidabilità reputazionale di chi chiede soldi in prestito, mi aveva segnalato, prim’ancora della lettera di Greco e Melillo, una delle tante deroghe di quest’era del Covid 19, inserita nel decreto Liquidità all’art. 13, comma 5, per essere precisi: le piccole e medie imprese possono accedere al Fondo di garanzia anche senza il rilascio della certificazione antimafia. Se dai successivi controlli dovesse emergere che a quella certificazione non avevano diritto, il prestito viene revocato ma la garanzia dello Stato resta. Il rischio che con risorse pubbliche, da destinare alle imprese in crisi, si finisca per finanziare le mafie, come scrivono di nuovo Greco e Melillo, “sembra finanche accettato con rassegnazione”.

Non basta ancora. Nel decreto Liquidità non c’è neppure nessun obbligo sulla tracciabilità dei finanziamenti concessi dalle banche perché garantiti dallo Stato. Sarebbe sufficiente prevedere l’utilizzo di conti correnti dedicati, con la rendicontazione di come quelle somme sono state impiegate, né più né meno di quello che già succede, per esempio, con le donazioni ricevute dagli enti del Terzo settore. Sono i “silenzi del decreto”, stigmatizzati dai due procuratori. Tutto in nome dell’emergenza coronavirus e della necessaria rapidità delle risposte, anche finanziarie, di cui il Paese ha bisogno.

La denuncia dei due procuratori è stata rilanciata dai loro colleghi del Consiglio superiore della magistratura. E, così racconta sempre Repubblica, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha messo immediatamente al lavoro i suoi uffici per correggere prima possibile, magari nella fase di conversione in legge, gli errori commessi nel decreto. La domanda, di nuovo, sorge spontanea: era così difficile pensarci prima?

#quellocolbongo

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