Dalla Cina è arrivato il virus che ha stravolto le nostre abitudini quotidiane. A quel Paese abbiamo guardato per adottare la strategia del lockdown (il confinamento a cui siamo costretti). E sempre dalla Cina arrivano i primi “indizi” su quale potrebbe essere la nostra reazione quando potremo, finalmente, uscire di casa, magari per andare al lavoro. Tra i cinesi è letteralmente crollata la fiducia nel trasporto pubblico: dal 56%, prima della pandemia, al 24%. Ed è esplosa quella verso l’auto privata: dal 34% al 66%.
I dati arrivano da un sondaggio pubblicato dall’istituto di ricerca Ipsos nelle scorse settimane, quando l’orizzonte dell’agognata “fase 2” era nel nostro Paese sicuramente più lontano di oggi. I sistemi di trasporto sono così diversi che non vale la pena scendere nei dettagli: basti pensare che il 45% del campione usa, sia prima che dopo il coronavirus, la bicicletta. E’ interessante, però, la principale motivazione per cui il 72% dei cinesi che non possiedono un’auto la vorrebbe acquistare oggi: guidare la propria automobile (77%) riduce il rischio del contagio.

Non è difficile prevedere che sarà una reazione quasi scontata anche da noi. Con la non banale differenza che l’Italia già oggi è il secondo Paese in Europa, dopo l’insignificante Lussemburgo, come tasso di motorizzazione, con 636 automobili ogni 1.000 abitanti, per di più in rapido invecchiamento. I veicoli con più di 10 anni di età erano il 37,9% nel 2000 e sono diventati il 56,3% nel 2018, mentre quelli con più di venti anni sono raddoppiati, dall’8,3% al 16,7%. Guardando al profilo “ecologico” del parco auto che circola in Italia, il 68,1% è nella fascia compresa tra “Euro 0” ed “Euro 4”: dalle “spacciatrici di veleni” a quelle che, nel migliore dei casi, rispettano parametri di emissione vecchi di 14 anni.
La nostra mobilità è, insomma, decisamente auto-centrica: nel 2018 il 59,1% dei nostri spostamenti è avvenuto su quattro ruote. E inquinante, con 54 città che hanno superato nel 2019 i limiti previsti per le polveri sottili e l’ozono, come ha rivelato l’ultimo rapporto “Mal’aria” di Legambiente. Da ieri, anche grazie all’inchiesta di “Report”, abbiamo pure meno dubbi sulle correlazioni tra inquinamento dell’aria, diffusione della pandemia e, soprattutto, conseguenze del coronavirus sulla nostra salute. Se dovesse scattare anche in Italia la “sindrome cinese”, l’impatto diventerebbe semplicemente insostenibile.
E allora? La lettura incrociata di due studi potrebbe aiutare il nostro Paese a trovare una via d’uscita. Il primo è il 16° Rapporto sulla mobilità degli italiani, pubblicato nel novembre scorso dall’Isfort, l’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti, da cui sono tratti i dati sulla nostra “auto-dipendenza”. Il secondo è “Città MEZ (Mobilità Emissioni Zero), a cura di Legambiente e Motus-E, l’associazione che riunisce tutte quelle realtà (dall’industria dell’auto a chi produce e distribuisce energia, dalle università alle associazioni ambientaliste) che promuovono la diffusione della mobilità elettrica in Italia (motus-e.org).
Basterebbe leggerli: ci sono tutti i numeri, le analisi e anche le proposte utili per disegnare la nuova mappa della mobilità nel nostro Paese, nell’era del coronavirus e oltre. Ne viene fuori, in sintesi, una ricetta che si potrebbe riassumere così: aumentare il tasso di mobilità sostenibile (la somma degli spostamenti a piedi, in bici e con i mezzi pubblici) che è fermo al 37,1%, più o meno lo stesso livello del 2000, a testimoniare, come scrive l’Isfort, “l’insufficienza delle politiche centrali e locali”; puntare, con molta più decisione, sulla mobilità elettrica (dalle centraline di ricarica ai mezzi, pubblici e privati), sempre più connessa, multimodale e, con le misure di sicurezza necessarie oggi, condivisa, come chiedono insieme Legambiente e Motus-E.
Chi ha responsabilità politiche, anche in questo caso, è chiamato ad esercitare il proprio ruolo con una nuova consapevolezza. Quando si approva una legge, come quella che ha introdotto, in Italia, dal 2000 i Piani urbani per la mobilità sostenibile (in sigla Pums) non si fanno passare 17 anni per approvare un decreto che ne fissa le linee guida e li rende imprescindibili per governare il traffico nelle nostre città. E non si lasciano, ancora oggi, nel limbo delle “buone intenzioni”, come rivela l’Osservatorio sui Pums di Euromobility (osservatoriopums.it), con 93 piani ancora “in fase di redazione”. Perché può capitare che arrivi un virus, ci costringa a restare a casa e nessuno sappia bene, ancora oggi, come farci muovere quando, finalmente, sarà finito il lockdown (nell’immagine: grafico estratto dal 16° Rapporto sulla mobilità degli italiani, a cura di Isfort).
#quellocolbongo