Quarantunesimo giorno (-14)

La denuncia fatta ieri su facebook dal presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, non può restare senza conseguenze. “Decidere quando riaprire le imprese spetta al governo, che dice che non è ora. Benissimo. Ma c’è una grande contraddizione con il fatto che con una semplice comunicazione alle Prefetture stanno riaprendo centinaia di migliaia di aziende – ha affermato Rossi – senza protocolli per la sicurezza, che solo in pochi casi sono stati elaborati. Non è corretto dire in un modo e poi lasciare che avvenga in un altro”. Anche perché di mezzo ci va la salute di chi in quelle aziende lavora, dei loro familiari a alle fine, come abbiamo drammaticamente imparato in questa emergenza Covid 19, anche la nostra. 

Il “trucco” a cui, secondo il presidente della Regione Toscana, starebbero facendo ricorso queste imprese è stato inserito nell’art. 2 del decreto del presidente del Consiglio, in sigla Dpcm, approvato lo scorso 10 aprile, che prevede, testualmente, “Misure di contenimento del contagio per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive industriali e commerciali”. Il primo comma di questo articolo è netto e chiaro: “Sull’intero territorio nazionale sono sospese tutte le attività produttive, industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 3”. L’allegato in questione è un elenco, puntuale, di codici Ateco, che sono quelli di cui deve dotarsi ogni impresa per poter svolgere, appunto, le proprie attività. Semplice e facilmente verificabile. 

Al comma 3 dello stesso articolo arriva la prima eccezione. Ragionevole, anche se il linguaggio usato non aiuta a comprenderla. Ad essere “sempre consentite” sono anche le attività funzionali “ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato 3”. Forse un esempio può aiutare a capire meglio: le produzioni agroalimentari sono, ovviamente, autorizzate ma i prodotti, per essere commercializzati, hanno bisogno di imballaggi in cui confezionarli, di pallet per trasportarli e, ovviamente, di mezzi di trasporto. Tutte queste attività “di filiera” sono autorizzate. Basta compilare un modulo e inviarlo alla Prefettura competente per territorio, cioè quella dove ha sede l’azienda. 

Il modulo in questione, scaricato dal sito della Prefettura di Padova e che ci auguriamo sia lo stesso in tutto il Paese, è chiaro e stringente: il titolare dell’azienda, consapevole che se dichiara il falso commette un reato penale, deve indicare per quali imprese lavora, il codice Ateco delle stesse (così da verificare che sia tra quelli previsti nell’allegato 3), gli estremi del contratto, dell’appalto o della fattura. Lo stesso discorso vale anche quando l’azienda in questione lavora sia per “imprese e amministrazioni erogatrici di servizi di pubblica utilità e servizi essenziali”, tutte ovviamente autorizzate dal decreto, sia per le “filiere dell’industria dell’aerospazio, della difesa e delle altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale, autorizzate alla continuazione”.

Inviato il modulo, scatta il meccanismo del “silenzio-assenso” da parte della Prefettura. Manca, purtroppo, nel modulo il richiamo a una clausola fondamentale, prevista dal decreto al comma 10 del famigerato art. 2: il rispetto del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”. Cioè i protocolli di sicurezza per chi nelle aziende ha continuato a lavorare, nonostante la pandemia.

Fin qui, burocratese a parte, è tutto abbastanza chiaro. E anche facilmente verificabile, magari a campione, con funzionari e personale amministrativo dedicato a garantire il rispetto delle regole, né più né meno di quello che avviene con i controlli stradali sulle persone in movimento (circa 4,5 milioni quelli fatti dal primo al 18 aprile). Il diavolo, però, com’è noto si nasconde nei dettagli. Nei decreti, in genere, sono poche parole sapientemente inserite in un comma. Nel nostro caso è quello numero 7: ad essere consentite, oltre alle “attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, incluse le lavorazioni, gli impianti, i materiali, i servizi e le infrastrutture essenziali per la sicurezza nazionale e il soccorso pubblico”, sono anche “le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. Quali? Certo non quelle dell’allegato 3, si sarà chiesto il funzionario del ministero dell’Interno chiamato a produrre il facs simile del modulo da compilare e inviare alla Prefetture. Non c’è neppure scritto, come al comma 3, “autorizzate alla continuazione”. E allora ecco spuntare un ulteriore modulo, molto più semplice del precedente. Si chiama proprio così: “Attività strategiche”. Dove non serve indicare il codice Ateco dell’impresa per cui si lavora, l’estremo del contratto, dell’appalto o della fattura. Basta mettere una crocetta alla voce: “attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. Tanto chi lo controlla. E pure se dovesse farlo, su che base contesta l’autodichiarazione? E’ una deroga alla deroghe del lockdown, quelle previste al comma 1 e pure al comma 3. Il protocollo di sicurezza, previsto dal comma 10 e che quasi nessuno avrebbe adottato, invece, è finito subito nel dimenticatoio. 

Insomma, quello denunciato dal presidente della Regione Toscana è una specie di “delitto perfetto” a cui si dovrà porre immediatamente rimedio. Abrogando, nella conversione in legge del Dpcm del 10 aprile, o dei provvedimenti successivi sulla “fase 2”, quelle cinque parole: “attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. Cancellando il relativo modulo e inserendo, negli altri, l’obbligo di rispettare il Protocollo condiviso tra le parti sociali, più di un mese fa, per garantire la sicurezza di chi durante il lockdown ha continuato a lavorare. Siamo sicuri che i sindacati lo pretenderanno anche nella “fase 2”. Sarebbe un bel segnale di civiltà se lo facesse anche Confindustria, stigmatizzando i troppi “furbetti” della sua categoria che fanno concorrenza sleale anche grazie al coronavirus.

#quellocolbongo

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