La prima certezza è che fino alle ore 24 di domenica 3 maggio 2020 non cambierà nulla. Ci sono, cioè, 7 giorni di tempo per studiare le 70 pagine di decreto, compresi i 6 allegati, da parte chi ha il dovere, l’esigenza o la curiosità di farlo. La seconda mi costringe, anche se non è elegante, a un’autocitazione: la fine del lockdown “non sarà uguale per tutti. Anzi, ognuno di noi avrà la sua. In base all’età, al lavoro, quando ce l’ha, al luogo in cui vive. Con tre sostantivi che accompagneranno a lungo la nostra vita sociale nell’era del coronavirus: distanziamento, prossimità e responsabilità”. La terza è che abbiamo un altro virus di cui fatichiamo a liberarci: la frenesia.
L’infelice conferenza stampa di ieri sera del premier Giuseppe Conte, con il volto segnato dalla stanchezza e una relativa lucidità, invece di trasmetterci il ritmo nuovo che avrà la nostra vita, nella lunga fase di convivenza con il coronavirus, ha finito per disorientarci. Qualcosa si era intuito anche dall’intervista concessa a “Repubblica” e “La Stampa”. Quel minimalismo privo di visione che di fronte agli interrogativi, angosciosi, a cui cerchiamo risposte scrutando il futuro trasmette un desolante senso di vuoto. In cui l’incertezza (altro sostantivo con cui, invece, dovremo abituarci tutti a convivere, non solo le giovani generazioni cresciute nella precarietà) diventa paura. E poi rabbia verso chi dovrebbe darci le risposte che non troviamo. Sbagliando, ancora una volta. Perché a farci alzare la voce dovrebbe essere, al contrario, la convinzione che esistono risposte diverse da quelle che ci vengono consegnate per decreto. Soluzioni migliori per affrontare la convivenza con il coronavirus e la ripartenza della società in cui viviamo. Nella giusta direzione e, per questo, migliore di prima.
Al primo sostantivo, il distanziamento, non ci sono alternative, fino a quando non avremo un vaccino. Il paesaggio delle nostre relazioni sociali, insomma, è destinato ad essere ancora a lungo radicalmente diverso da come l’abbiamo costruito finora. E anche i piccoli spazi di libertà che ci siamo riconquistati, restando chiusi in casa, dovranno essere regolati da questo principio. Obbligatorio prim’ancora che per decreto per senso di responsabilità. Noi dovremo o potremmo comunque scegliere di indossare la mascherina e i guanti quando, dal 4 maggio, dopo aver studiato il decreto e avere ottenuto, da chi di dovere, risposte ad eventuali dubbi, usciremo di casa per fare la spesa, gettare l’immondizia, camminare intorno al palazzo in cui viviamo, andare al lavoro nelle imprese che potranno riaprire, fare visita a un familiare o passeggiare in un parco. Ma in questi sette giorni le amministrazioni regionali e comunali che ci governano hanno il dovere di predisporre i piani della mobilità, modificare l’uso dei mezzi pubblici, creare nuovi spazi per chi vuole e può spostarsi a piedi, in bicicletta, con i monopattini elettrici, regolare, senza farci precipitare di nuovo nell’emergenza smog, la circolazione delle auto private. Le imprese, invece, dovranno predisporre tutte le misure previste dal nuovo Protocollo di sicurezza approvato insieme alle organizzazioni sindacali lo scorso 24 aprile. Vedremo chi e come sarà in grado di farlo. E potremo giudicare. Protestando, civilmente, per quello che non funziona, esponendoci a disagi o rischi inutili. Sarà, in questo caso, la prossimità a farci da guida, nei quartieri e nelle città in cui viviamo, nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici che useremo, come non abbiamo mai fatto finora.
Dal governo e dal Parlamento, a parte i decreti già annunciati per le prossime settimane, con la riapertura progressiva di altre attività economiche e commerciali, ci aspettiamo quello che finora, purtroppo, si è visto molto poco: una visione della società diversa, considerato che da mesi, ormai, nulla è già più come prima e che non lo sarà ancora a lungo. Magari dando ascolto agli appelli finora caduti nel vuoto di tutte quelle realtà, associazioni, reti, organizzazioni sindacali, fondazioni, che stanno garantendo, con il loro impegno e quello di decine di migliaia di volontari, la tenuta sociale del Paese. Rispondendo a bisogni elementari che istituzioni intossicate da burocrazia, cinismo, corruzione e interessi criminali non sono in grado di soddisfare. Affiancando sindaci lasciati spesso da soli in trincea. Costruendo con le imprese sane del nostro Paese alleanze in cui alla prossimità e alla responsabilità si aggiunge, nei territori, un terzo sostantivo: la solidarietà.
Giuseppe Conte, a cui come essere umano dobbiamo saper riconoscere il beneficio della stanchezza, ha sicuramente sbagliato tempi e toni della conferenza stampa di ieri sera. Noi, però, non cerchiamo scuse. Uscire da questa crisi drammatica con un Paese migliore di quello in cui abbiamo vissuto finora dipende anche dalle scelte che avremo voglia di fare. Compresa quella di incazzarci, quando è necessario.
#quellocolbongo