Quarantasettesimo giorno (-8)

Sarà perché è domenica. Oppure perché dopo aver letto l’intervista rilasciata da Giuseppe Conte al nuovo direttore di “Repubblica”, Maurizio Molinari, è definitivamente tramontata l’illusione di un pensiero nuovo nella politica italiana (le tre “grandi notizie” sono che le scuole riapriranno a settembre, le mascherine avranno un prezzo calmierato e sta arrivando l’ennesimo decreto “sblocca Paese”). Ma questa mattina ho sentito l’esigenza, per quanto possa sembrare paradossale dopo 47 giorni di isolamento in casa, di prendermi una pausa. E sono andato a rileggere le riflessioni su quest’era del coronavirus di due filosofi: Edgar Morin (avvenire.it del 15 aprile) e Umberto Galimberti (gqitalia.it del 16 aprile).

Foto di Naveen Annam da Pexels

Il primo tratto in comune tra l’intervista a Morin, raccolta da Alice Scialoja nel mese di febbraio, e l’articolo di Galimberti è il pessimismo sul futuro che ci attende. “Ci sono forze autodistruttive in gioco negli individui come nelle collettività, inconsapevoli di essere suicidi. Fin dove arriveranno questi danni e quando avverrà una reazione, non si sa – afferma Morin – Da 50 anni sono tra coloro che lanciano l’allerta. Ma i progressi della coscienza sono lenti. È tardi. Non lo so”.  Galimberti è ancora più netto: “Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività. Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così. Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è da subire”. Non è quello che cercavo, un barlume di speranza, ma ho sempre pensato che la piena consapevolezza della realtà, per quanto scomoda possa essere, è il primo passo, indispensabile, per reagire.

Sia Morin che Galimberti uno spiraglio lo lasciano aperto, partendo da una riflessione comune: ci siamo scollegati dalla dimensione biologica della nostra esistenza. “Nonostante si sappia da Darwin in poi che siamo frutto di un’evoluzione biologica, tutta la nostra cultura continua a separare il biologico dall’umano”, afferma Morin. “Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che vincerà”, sembra fargli eco il filosofo italiano.

In fondo è quello che sta già accadendo negli ambienti naturali improvvisamente liberati dalla nostra, ingombrante, presenza, dove specie diverse tra di loro hanno preso coraggio e si sono conquistate spazi nuovi di libertà. Forse dovremmo fare lo stesso anche noi. Essere più consapevoli delle nostre diversità, che sono il risultato delle nostre diverse condizioni di vita e, in questo senso, biologiche. Ri-conoscerci, partendo dai nostri limiti e dai nostri difetti ma anche dagli spazi di libertà che vogliamo conquistare per cambiare, in meglio, la società in cui viviamo. E organizzarci di conseguenza. Galimberti non crede nel futuro e Morin nell’idea di progresso. Ma il primo un obiettivo da raggiungere lo individua: “Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura”, in cui sono le persone a incontrarsi. E il secondo un consiglio ce lo dà: “Creare oasi di libero pensiero, fraternità, solidarietà, isolotti di resistenza che difendono valori universali e umanisti, e pensare che un giorno questi possano diventare un’avanguardia. È successo tante volte nella storia, succederà di nuovo”. Buona domenica e daje sempre!

 #quellocolbongo.

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