Decimo giorno

Il coronavirus ci sta costringendo a una dieta, ferrea, di buona parte dei sentimenti a cui eravamo abituati. E del nostro modo consueto di esternarli. Niente più abbracci né baci sulle guance, quando incontri qualcuno a cui vuoi bene. Niente più risate a pranzo o cena con i figli che vivono per conto loro, o con gli amici.  Niente più emozioni condivise, anche con gli estranei, come quelle che si provano durante un concerto dal vivo o una manifestazione. Non sai neppure quanto durerà la “fame” che questa dieta ti scatena, prima di tornare ad assaporare la bellezza di tutti i sentimenti a cui sei stato costretto a rinunciare da un virus letale. Chi da almeno dieci giorni, come sta capitando a me. Chi da un mese, come le persone che vivono nelle prime zone rosse del nostro Paese, tra la Lombardia e il Veneto.

Un vuoto, improvviso, di sentimenti che si riaccendono solo nei tuoi ricordi e in quelli che ti regalano le foto riemerse dai cassetti di un’amica, come quella della manifestazione nazionale organizzata da Legambiente a Roma, nel 1998, per un’Europa e un’Italia migliori. Facendoti dimenticare, anche se per poco, stati d’animo che non avresti mai immaginato di vivere in questo modo. L’ansia, per i numeri del contagio e l’attesa di un picco che non arriva mai. L’orrore, per le immagini dei camion dell’esercito che portano via i corpi di chi non ce l’ha fatta e deve essere cremato in altri inceneritori, perché quello cittadino è saturo ogni oltre limite. La paura, per un futuro che non riesci a immaginare oltre l’orizzonte temporale delle 24 ore. Ansia, orrore, paura sono tossine che entrano in circolazione in una società anche in condizioni normali, ma che solo durante una guerra diventano una costante della vita quotidiana, come ci raccontano i libri di storia e le testimonianze di chi l’ha attraversata. Che danni faranno, oggi, queste tossine a quella parte di umanità, la nostra, che non conosce più da oltre 70 anni i rigori di una guerra? Non c’è neppure un nemico verso cui catalizzare le energie negative che scatena un conflitto. Quelli che s’intravedono passeggiano senza una meta, fanno jogging, vanno in bicicletta. E fanno incazzare oggi molto più di chi dorme per strada, perché non ha una casa dove rifugiarsi. O di un migrante.

Non sono uno psicologo e non ho nessuna competenza per dare una risposta. Ma quello che sto sforzandomi di fare alle 12, 18 e 21 di ogni giorno, testardamente, è un tentativo improvvisato di “terapia di comunità”. E ieri ho scoperto che forse può funzionare. Uno dei miei vicini di casa mi ha raccontato di essere andato a fare la spesa per la mamma anziana, di aver sentito il silenzio del quartiere in cui vive e la mancanza dei pochi minuti al giorno passati insieme a Largo Minganti, affacciati da un balcone o a una finestra, per applaudire, cantare, accendere una luce. Scoprendo che sono tante le persone con lo stesso bisogno: provare di nuovo, per quello che si può, i sentimenti che regalano quei gesti quotidiani a cui il Covid19 ci sta costringendo a rinunciare. Un abbraccio, un bacio su una guancia, l’emozione di un applauso condiviso con persone che non conosci, a un concerto o una manifestazione. Una piccolissima cosa, di fronte ai sacrifici e al coraggio di chi è in trincea nelle strutture sanitarie. Ma in questa r-esistenza al coronavirus non esistono retrovie. Dobbiamo sentirci, tutti, in prima linea, se vogliamo vincere. Daje! #quellocolbongo (e col megafono).

Ti consigliamo anche