Quello che comincia domani è un mese decisivo nella nostra lotta al coronavirus. Lo affronteremo, sostanzialmente, a mani nude. Senza vaccino né farmaci adeguati. Con il dubbio di indossare mascherine davvero utili (8 su 10 di quelle testate al Politecnico di Torino non hanno neppure superato i test che precedono quelli batteriologici). E una classe politica che, fatte le dovute eccezioni, è davvero difficile definire “dirigente”, visto che non sa come e dove dirigerci.
Lo sconforto, tra leghisti in mascherina che “occupano a oltranza” le aule del Senato e della Camera, governatori che si sfidano a colpi di ordinanze creative, maggioranza sempre sull’orlo dell’ennesima crisi e opposizione in ordine sparso, è comprensibile. Anzi, stiamo dimostrando di avere un’incrollabile pazienza. Ma al legittimo sconforto dobbiamo saper reagire, provando a cogliere ogni minimo segnale di speranza. Indispensabile per affrontare ciascuno di noi, in base a quello che potrà o dovrà fare, l’agognata e, non per colpa nostra, angosciante fase della ripartenza.
È quello che ho pensato leggendo le dichiarazioni sia del capogruppo del Pd alla Camera Graziano Del Rio, intervistato da “Repubblica”, sia del ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, impegnato in una delle consuete videoconferenze con la riottosa compagine dei governatori. Secondo Del Rio, “adottate le misure di sicurezza (mascherine, sanificazioni, distanziamento), le attività, in accordo con le Regioni, in maniera differenziata possono ripartire”. Il ministro Boccia si è spinto ancora più in là, dando persino una data: “In base al monitoraggio delle prossime settimane, ci potranno essere dal 18 maggio scelte differenziate”.
Quella che si annuncia come una rivoluzione è, in realtà, una semplice scelta di buon senso. Fondata su un principio di equità, che è radicalmente diverso dall’uguaglianza praticata, sbagliando, nell’ultimo Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) di questa fase di lockdown. A spiegare bene la differenza tra equità e uguaglianza è un semplice disegno, molto conosciuto tra chi studia la teoria del cambiamento: se vuoi garantire gli stessi diritti, devi rispettare le differenze. E’ il principio che, quindici giorni fa, mi aveva spinto a scrivere un Diario in cui mi chiedevo per quali ragioni non si offrisse ai cittadini della Basilicata e del Molise, dove si era toccata la fatidica “soglia 0” dei nuovi contagi, l’opportunità di sperimentare prima quella che oggi conosciamo come la “Fase della transizione”. Non mi sembrava giusto che soffrissero, anche economicamente, gli stessi rigori dell’isolamento a cui erano costretti il resto degli italiani. Mi è capitato di leggere nei giorni successivi anche autentiche amenità, come quelle di chi sosteneva che, proprio perché non c’erano contagi, Molise e Basilicata (isolate dal resto d’Italia, come tutte le altre regioni) sarebbero state quelle più a rischio. Ancora ieri, in Basilicata, per il terzo giorno consecutivo ci sono stati zero contagi e in Lombardia, solo per fare un esempio, 786. In Molise, di nuovo zero contagi e in Piemonte 457. Ma fino al 18 maggio, in maniera iniqua, chi vive in Basilicata e in Molise dovrà sopportare gli stessi sacrifici di chi vive in Piemonte e in Lombardia.
Non solo. Se il buon senso, prim’ancora della scienza (mai neutrale, come mi hanno insegnato da giovanissimo) avesse guidato chi ci governa, Molise e Basilicata ci avrebbero già dato alcune delle risposte che stiamo ancora cercando. Perché si sarebbero potuti “testare” i protocolli di sicurezza in attività produttive e commerciali chiuse nel resto d’Italia. Verificare il funzionamento dell’app che, forse, dopo il 4 maggio potremo finalmente utilizzare per convivere con il coronavirus. Applicare il famigerato “diagramma del futuro”, per monitorare l’impatto delle riaperture sulla diffusione del contagio. Invece no: almeno fino al 18 maggio dovremo essere “tutti uguali”, anche se di fronte al coronavirus non lo siamo, in realtà, mai stati. Basta pensare ai 152 medici morti finora perché, a differenza nostra, hanno continuato a lavorare, senza neppure quei Dispositivi di sicurezza individuale che uno Stato degno di questo nome avrebbe dovuto garantirgli.
“Non è mai troppo tardi” era il titolo di un programma televisivo, condotto da Alberto Manzi nei primissimi anni Sessanta, quelli della ricostruzione e del boom economico. Talmente famoso da diventare un proverbio. Quello che forse si conosce meno è il sottotitolo: corso di istruzione popolare per l’adulto analfabeta. Oggi l’analfabetismo è, purtroppo, assai diffuso anche nelle stanze del potere. Toccherà armarsi di tanta pazienza per fargli noi, cittadini consapevoli e responsabili, un “corso di istruzione popolare”.
#quellocolbongo