Lewis Mumford

Sociologo, storico e urbanista, statunitense (1895-1990).

Professore in diverse università degli Stati Uniti, M. è uno dei teorici più originali e autorevoli della critica della –>Tecnica.  

Filo conduttore del pensiero di M. è l’idea mutuata dal suo maestro –>Geddes che la tecnica, principale espressione della creatività umana, possa finire per ritorcersi contro questa stessa creatività. Egli distingue tra due forme di tecnica: la “polytechnics”, abilità creativa dell’artista-artigiano finalizzata a soddisfare i bisogni umani nella loro estrema varietà; e la “monotechnics”, che è la tecnologia autoritaria dominante, “basata sull’intelligenza scientifica e la produzione quantitativa, orientata principalmente verso l’espansione economica, la sazietà materiale, la superiorità militare”. A segnare il passaggio dalla prima alla seconda forma di tecnologia è ciò che M. chiama la “megamacchina”, modello di organizzazione sociale a forte impronta centralistica e gerarchica. La “mega-macchina” non è prerogativa esclusiva della società industriale, anzi è all’origine di molte realizzazioni grandiose del passato  dalla Grande Muraglia cinese alle Piramidi egizie, e di antichi sistemi statuali come l’impero romano: in essa vive il mito per cui la tecnologia su larga scala e la centralizzazione non hanno limiti (–>Limite/limiti) e sono necessariamente benefiche. D’altra parte, egli vede la “megamacchina” come quintessenza del mondo contemporaneo, nel quale gli uomini sono sempre più soggiogati da criteri e strutture tendenzialmente totalitari: la produzione quantitativa e standardizzata, un materialismo assoluto che trasforma le merci da mezzi in fini, la burocrazia, gli apparati militari, gli stessi mezzi di comunicazione di massa. Tra le caratteristiche più peculiari della “megamacchina”, vi è l’ambizione di “conquistare l’ambiente”: M. ne assume ad emblema lo stadio iniziale della rivoluzione industriale che chiama il “capitalismo del carbone”, nel quale la degradazione umana e sociale del lavoratore delle miniere e delle fabbriche procede di pari passo con la distruzione dei boschi, la contaminazione delle acque con metalli tossici, l’immissione nell’aria di fumi inquinanti.

Per M., questa progressiva disumanizzazione della tecnica si manifesta in modo particolarmente compiuto nella storia della città, la cui ricostruzione è tra i temi centrali della sua opera. Forma urbana coerente della “megamacchina” è la città “gigantista” e monocentrica, burocratica e commerciale: M., riprendendo la riflessione di Geddes ma anche di autori dell’Ottocento come –>Morris e –>Ruskin, ne individua il prototipo nell’antica Roma, lo sviluppo nella città barocca, l’esplosione nella megalopoli, e invece l’alternativa nella città medievale la cui dimensione “finita” riflette un rapporto più equilibrato con la natura circostante. Elemento distintivo di questo modello di città è la negazione di ogni limite alla crescita del complesso urbano, e M. teorizza che solo recuperando il senso della propria limitatezza e della propria dipendenza dai flussi e dai processi naturali, la città potrà tornare luogo di vera socialità.

La visione di M. lascia però spazio alla speranza e all’ottimismo, a quella utopia concreta e pragmatica – più razionale di tante “follie realizzate” del Novecento, dal nazismo, allo stalinismo, alla bomba atomica – cui spesso egli si richiama. Per lui “monotechnics”, “megamacchina”, megalopoli non sono esiti definitivi ed irreversibili: alcune più recenti innovazioni tecniche – la sostituzione del ferro con l’alluminio e del carbone e del petrolio con l’elettrictà, i successi delle sintesi chimiche – possono ancora   ricondurre l’uomo verso una civiltà “politecnica”, ma a condizione che si realizzi una generale riappropriazione sociale delle risorse naturali ed energetiche, dei processi produttivi, dei meccanismi di decisione politica.

Nella visione di M. si ritrovano anticipati, più o meno implicitamente, molti degli spunti fondativi del pensiero ecologico contemporaneo: la critica radicale del mito della –>Crescita illimitata (economica, urbana, demografica); l’analisa entropica (–>Entropia) della città; il rifiuto di un uso privatistico, mercantile delle risorse naturali. E in essa risuona quella miscela tra messa in guardia dalle “degenerazioni” del –>Progresso e fiduciosa invocazione sulla possibilità di costruire una “modernità ecologica” che sarà uno dei temi centrali dell’–>Ecologia politica.   

BIBLIOGRAFIA

Storia dell’utopia, 1922

Tecnica e cultura, 1934

La cultura delle città, 1938

La condizione dell’uomo, 1944

La città nella storia, 1961

Il mito della macchina, 1967

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