Chernobyl, tra resilienza e semi di futuro possibile

A 34 anni dalla catastrofe, Angelo Gentili ci racconta il suo viaggio in Bielorussia nei luoghi del Progetto Rugiada targato Legambiente, che offre una dimensione alternativa ai bambini vittime del più grave incidente nucleare civile della storia dell’umanità

Chernobyl raccontata 34 anni dopo la catastrofe che mise davanti agli occhi del mondo intero le conseguenze del più grave incidente nucleare civile della storia dell’uomo. Quello causato dall’errore criminale di un’umanità fallace, che tenta di spingersi al massimo della potenza, segnando irrimediabilmente la fisionomia di spazi sterminati, la bontà dell’aria e del suolo, il destino di popolazioni intrappolate in un eterno, doloroso presente. Imprigionate in una nube tossica che, a distanza di decenni, non esaurisce i suoi effetti. Le radiazioni trasportate dal vento, propagate dalle fiamme, servite nel piatto dei sopravvissuti.

Angelo Gentili in Bielorussia, dove Legambiente porta avanti il Progetto Rugiada

Appena un anno fa, Angelo Gentili, responsabile Agricoltura di Legambiente e presidente di Festambiente, compiva il suo ultimo viaggio nelle aree più rurali della Bielorussia – il granaio dell’ex Unione Sovietica – dove l’associazione porta avanti il Progetto Rugiada, rivolto ai più piccoli, vittime dirette e indirette del disastro Chernobyl.

Un percorso di solidarietà che passa per l’assistenza sanitaria, l’educazione alimentare e “alla terra”, e una struttura all’avanguardia quale il Centro Speranza: non una parola a caso quella che dà il nome a questa realtà, oasi incontaminata in mezzo al deserto di città fantasma e terreni inquinati. Aree nelle ultime settimane raggiunte dagli incendi propagatisi intorno alla centrale di Chernobyl, che intensificano i rischi sanitari in porzioni di territorio già compromesse da miseria, disagio sociale e psicologico, in cui fa capolino anche l’emergenza Coronavirus. Territori dove, spiega Gentili, il futuro è ipotecato e ogni azione che offre una dimensione diversa è un seme per le nuove generazioni. Dove coltivare resilienza significa guardare a un’alternativa possibile.

Angelo, a 34 anni dal disastro di Chernobyl, gran parte della popolazione nelle aree da te visitate sopravvive nutrendosi a ‘pane e radiazioni’. Come si convive con la consapevolezza che la maggior parte della radioattività assorbita ogni giorno proviene proprio dal cibo, ricco di radionuclidi?

Rispetto ai primi anni dopo l’incidente di Chernobyl, che ha segnato la storia di cinque milioni di persone tra Bielorussia, Russia e Ucraina, il paradigma è cambiato completamente: prima c’è stata una dimensione acuta molto forte, scandita dalla morte di molti liquidatori [i militari e pompieri che operarono al recupero della zona del disastro, ndr.] e dalla contaminazione che ha colpito le persone attraverso una radioattività che non vedi, non senti, ma che ha conseguenze catastrofiche, provocando l’abbassamento delle difese immunitarie. Adesso, la maggior parte della radioattività la assorbi attraverso l’alimentazione: chi vive nelle zone contaminate mangia cibo più o meno radioattivo, beve acqua radioattiva, con un aumento di patologie soprattutto tumorali, come quelle della tiroide insieme a tante altre. Quando è avvenuta la catastrofe di Chernobyl, chi poteva andar via è andato via, ma la maggior parte delle persone è rimasta, per cui si ha comunque la consapevolezza di vivere in una zona ad altissimo rischio; dall’altra parte, si cerca di attutire il più possibile i danni psicologici legati al fatto di vivere in un’area senza futuro per sé e per la propria famiglia. Una consapevolezza che crea un grave disagio. Dopo tanti anni, si potrebbe pensare che tutto sia ormai finito, e invece questa tragedia accompagnerà la storia dell’umanità ancora per centinaia di anni.  

Uno degli aspetti che più colpisce nel tuo reportage è il contrasto fra una città come Minsk – che descrivi come tirata a lucido, pulita, con la frenesia di una moderna capitale europea, “al primo sguardo un luogo proiettato al futuro”, e il dramma delle zone rurali. I danni sanitari sono enormi, ma un altro effetto collaterale sono le ripercussioni sociali e psicologiche: in particolare, la “sindrome Chernobyl”, che affligge chi non vede una prospettiva alla condanna di vivere in una zona radioattiva. Un fenomeno talvolta sottotraccia rispetto ai danni materiali e in termini di vite spezzate, ma emblematico, specie nel momento che noi tutti stiamo attraversando. Quanto c’è ancora da fare su questo fronte?

C’è tanto da fare, perché la popolazione è molto colpita. Soprattutto nelle aree più rurali che vivono la contaminazione da vicino: lì il problema più grande non è tanto e solo la propria esistenza, quanto il futuro dei propri figli. Tra l’altro, in queste aree è dilagante la diffusione dell’alcolismo, la vodka è spesso uno dei mezzi che si utilizzano per cercare di pensare il meno possibile, in contesti famigliari molto particolari dove non tutti riescono a gestire il ménage quotidiano. Come ci dicono gli studi, la sindrome di Chernobyl è una delle conseguenze più gravi. Allo stesso tempo, c’è da lavorare sulla parte legata al modo di vivere in un’area a rischio: il futuro di queste popolazioni passa per la resilienza, bisogna adattarsi cercando di convivere con la situazione in una maniera che crei meno danni possibile. Questo fa bene sia alla salute fisica che a quella mentale, perché permette di intravedere una speranza.

Noi stiamo cercando di offrire una maggiore cernita nella dieta delle popolazioni che porti a una contaminazione più bassa, fornendo loro una conoscenza rispetto a quello che si può mangiare o meno. Facendo comprendere che è importante non mangiare, ad esempio, i funghi, i frutti di bosco, non bere il latte né mangiare la carne provenienti da pascoli radioattivi, ma che ci si può nutrire delle verdure e della frutta degli orti di zone meno radioattive. Dopo tanti anni, c’è la speranza che i giovani possano recepire maggiormente rispetto agli anziani un percorso di questo tipo, perché più capaci di adattarsi a una vita diversa, con uno sbocco nuovo anche in termini di minore rischio rispetto a prima. È un po’ quello che stiamo vivendo nel dramma dell’emergenza sanitaria del Coronavirus, con la quale ci stiamo abituando a convivere, nell’ottica di diminuzione del rischio.

Purtroppo la storia non sembra avere insegnato granché, come tu stesso raccontavi nel 2019 parlando della costruzione in Bielorussia di una nuova centrale nucleare ai confini della Lituania. Anche in questo caso, l’economia ha imposto le sue logiche rispetto alla tutela della salute delle persone. Come si può immaginare un’inversione di tendenza in queste realtà? Quale ruolo può e deve avere ad esempio l’Unione europea?

La nuova centrale costruita in Bielorussia insegna molto: purtroppo la storia non ha lasciato un segno. Il Paese che è stato colpito dal 70% del fallout radioattivo, dal più grande incidente radioattivo nucleare nella storia dell’umanità, sceglie ancora una volta il nucleare: una decisione dettata sicuramente da un forte fabbisogno energetico e dal legame con la Russia, nonostante le proteste che ci sono state, seppure più sommesse da parte bielorussa. L’Europa potrebbe assumere un ruolo molto forte, visto che la Lituania è un Paese dell’Unione europea, cercando di condizionare di più la possibilità di fare scelte diverse dal nucleare, che vadano, a maggior ragione in un momento come questo, verso le rinnovabili e l’efficienza energetica. Chiaramente i rapporti tra blocco bielorusso-russo-Europa sono molto complessi e difficili, però queste popolazioni non possono essere lasciate sole. Anche l’incendio di poche settimane fa, che è arrivato a lambire il deposito radioattivo di Chernobyl, la centrale e la città fantasma di Pripyat, ci dimostra quanto ci sia da imparare e quanto la comunità internazionale, a distanza di tanti anni dall’incidente, debba intervenire per mettere definitivamente in sicurezza la centrale di Chernobyl, che non lo è ancora, anche se è stato costruito il nuovo sarcofago che la ricopre. Questo per evitare catastrofi ulteriori e che sostanze radioattive finiscano nell’atmosfera. Bisogna coadiuvare le popolazioni vittime che, dopo le prime luci accese dai media, sono state abbandonate. Ma è anche un nostro obbligo quello di favorire un percorso nuovo ricordandoci che il nucleare si lega indissolubilmente a una storia negativa per tutta l’umanità. Da parte della Commissione europea è necessario, anche con un colpo di reni, un intervento incisivo.

Come accennavi, l’area vicino Chernobyl è tornata alla ribalta per gli incendi divampati nelle ultime settimane. Sebbene siano arrivate rassicurazioni rispetto al pericolo radioattività, vi sono diversi altri fattori da considerare. Penso, ad esempio, ai danni materiali causati in contesti poveri, dove molte persone sono rimaste senza un tetto o fonti di sostentamento quali orti e animali, e ai fumi che causano disturbi respiratori, in quadro che vede anche il sopraggiungere dell’emergenza Covid-19. Quali sono i rischi maggiori?

Il sopraggiungere degli incendi aumenta sicuramente i rischi già di per sé molto alti in una situazione di estrema difficoltà e in aree nelle quali si assiste certamente anche all’inizio dell’emergenza Coronavirus. I fumi creano un grosso problema, sia per la presenza di polveri sottili, sia per tutta una serie di altri composti dannosi per il sistema respiratorio. Senza contare che nelle aree boschive vicino alla centrale dove questi incendi sono scoppiati, checché se ne dica, vedono comunque la presenza di alberi fortemente radioattivi. Le persone, inoltre, hanno perso la propria casa, non hanno più la possibilità di poter coltivare. Arrivare a lambire un deposito radioattivo in un’area già così compromessa è molto grave.

L’impegno di Legambiente con il Progetto Rugiada, d’altro canto, negli anni non è mai venuto meno. Dalla creazione delle serre diffuse che hai raccontato nel tuo diario di viaggio al Centro Speranza, sorta di “oasi” in mezzo al deserto: com’è andato avanti e quali sono le prospettive di medio e lungo termine?

Da molto tempo Legambiente opera in queste aree con pervicacia, costanza, continuità. Non è stato semplice e ringrazio tutti i volontari del progetto che ci hanno dato e continuano a darci una grande mano per tenere in piedi un percorso di grande solidarietà tra l’Italia e la Bielorussia: non ci dimentichiamo che il nostro è il Paese nel mondo che ha ospitato più bambini e che ha dato di più sul fronte contaminato della Bielorussia negli anni. Noi lì adesso, attraverso il Progetto Rugiada, diamo ospitalità a bambini che vengono portati in un’area pulita, completamente all’avanguardia dal punto di vista energetico, dove c’è un orto biologico, dove i più piccoli si alimentano con cibo pulito e riescono a smaltire buona parte del cesio 137 che assorbono durante l’anno e quindi ad avere un minore rischio sanitario, in una situazione di grande tranquillità e convivialità.

Allo stesso tempo, come accennavo, stiamo lavorando per informare maggiormente i bambini e le loro famiglie su quale dieta scegliere nelle zone contaminate e preservare la loro salute nel tempo. C’è inoltre un centro sanitario a disposizione: laddove vengono evidenziate patologie latenti, interveniamo per far curare sul luogo i bambini. Quello che è certo è che le famiglie di Chernobyl hanno bisogno di percorsi di questo tipo, con un valore simbolico, ma anche politico, psicologico e pedagogico, perché è importante dare una dimensione scientifica insieme a un segnale di solidarietà concreta. La stessa cosa vale per le serre che abbiamo realizzato in diverse scuole: con un substrato pulito, consentono di coltivare prodotti agricoli utilizzati nelle mense scolastiche, dove i ragazzi passano buona parte del loro tempo. Da un lato, quindi, permettono un’alimentazione più pulita, dall’altro di instaurare un rapporto diverso con la terra, facendo loro capire come è possibile coltivare prodotti non contaminati.

Anche le famiglie comprendono che il percorso è uno sbocco verso una coesistenza con la contaminazione, conseguenza di una catastrofe legata al nucleare che noi aborriamo in ogni caso, nonostante continui a essere presente in numerose realtà nel mondo sia per scopi civili che militari. Quando ci troviamo a contatto con queste popolazioni, ci rendiamo conto di come vivano una realtà quotidiana che spontaneamente tendono a relativizzare: aiutarle a diminuire il rischio è un seme che stiamo provando a instillare, non guardando solo al dramma del passato e del presente, ma al futuro in maniera diversa. Un futuro in cui l’azione dell’uomo riesca a ridurre quello che l’incidente ha catastroficamente realizzato.

Intervista a cura di Valentina Barresi

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