Nei reparti di terapia intensiva cominciano ad esserci più posti letto che pazienti ricoverati. Di mascherine, garantisce il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, ne arriveranno 650 milioni nelle prossime settimane. I Comuni, chi più velocemente chi meno, stanno distribuendo buoni pasto e viveri alle persone più bisognose. Ci sono voluti quasi un mese dal decreto che ha messo in quarantena l’Italia e, fino a ieri sera, 17.127 morti. Troppi, rispetto ai 135.586 casi di contagio accertati. Ma le prime, elementari, difese dalle conseguenze più gravi, sanitarie ed economiche, della Sars-Cov-2 sembrano finalmente in grado di reggere l’urto.
L’emergenza, come dimostrerà anche il prossimo, imminente, decreto del presidente del Consiglio, è tutt’altro che finita. Resteremo ancora a casa, dopo il 13 aprile. E’ quasi certo. E la riapertura delle attività economiche chiuse dal 10 marzo in tutta Italia sarà necessariamente lenta. Adesso, però, il Paese, che sta dimostrando di saper resistere alle misure, drammatiche, imposte dalla pandemia, deve essere coinvolto in quello sforzo, titanico, che tutti chiamano “fase 2”: la ripartenza. Dovremmo aver acquisito, a cominciare da chi governa le nostre istituzioni, tutte, la consapevolezza che nessuno è in grado di immaginare da solo quali saranno le soluzioni migliori per superare la crisi. L’Italia è arrivata talmente impreparata davanti a questa emergenza, dichiarata formalmente il 31 gennaio scorso, con ritardi gravissimi, anche rispetto a decisioni vitali, di cui qualcuno dovrà rispondere, che è consigliato, oggi, un solo approccio a chi ha responsabilità politiche. Fondato sull’umiltà e la capacità di ascolto.
Le proposte, concrete, per disegnare, da subito, un’economia diversa da quella che ci ha trascinato nell’incubo della pandemia non circolano nelle stesse stanze e nelle stesse menti di chi questo sistema ha contribuito a edificarlo. Vanno cercate altrove, soprattutto da parte di chi ha oggi, nel nostro Paese, il potere di trasformarle in soluzioni condivise. È quello che dovrebbe accadere, ad esempio, con il progetto “Elettronica solidale” lanciato nei giorni scorsi dalla cooperativa Reware, straordinario nella sua semplicità. Le aziende, invece di smaltire come rifiuti i computer portatili in dismissione, li affidano a Reware (inviando un inventario a dismetti@re-ware.it) che li rigenera. Il 20% viene destinato, gratuitamente, alle scuole pubbliche che ne hanno bisogno, sulla base delle domande arrivate, tramite PEC ufficiale, alle PEC della cooperativa (reware@legalmail.it). L’80%, invece, viene venduto, come sempre, sul sito di Reware per “sostenere i costi, mantenere i posti di lavoro dei soci lavoratori e rendere questa operazione economicamente sostenibile”. I risultati dell’iniziativa verranno costantemente aggiornati su facebook e linkedin. Una soluzione semplice, efficace e trasparente. Di autentica economia circolare.
Nel Paese del digital divide, con intere aree in cui termini come “banda larga” e “banda ultra larga” sembrano acronimi di nuove associazioni a delinquere, invece che infrastrutture oggi ancora più indispensabili di prima. Dove il 41% delle famiglie che vivono nelle regioni del Sud è senza un computer. Con una ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che è costretta a chiedere scusa, in diretta tv, agli insegnanti precari perché il suo ministero non è in grado di aggiornare, on line, le graduatorie d’istituto. In questo Paese, che è il risultato anche delle inefficienze e delle incompetenze di chi lo ha governato finora, potete chiederci di restare ancora a casa ma non di avere fiducia soltanto in voi su come farlo ripartire. Chi di dovere, abbia l’umiltà richiesta in questo momento e la necessaria capacità di ascolto. Né più né meno della nostra (foto di Jéshoots, pexels.com).
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