Smascherare ipocrisie e falsità di chi ha ruoli politici, in fondo, è semplice. Basta esercitare la memoria. Il Salvini sbraitante contro la perfida Olanda, responsabile della nuova “Caporetto” italiana in Europa, è lo stesso che il 18 maggio del 2019 inneggiava al sovranismo, da piazza Duomo a Milano, insieme all’allora leader dei sovranisti olandesi, Geert Wilders. Dopo il pessimo risultato del suo partito alle successive elezioni europee, Wilders è stato scalzato in Olanda da un nuovo leader, ancora più sovranista ed euroscettico di lui: il relativamente giovane Thierry Baudet del “Forum per la democrazia” (abbracciato a Giorgia Meloni nell’ultima edizione di “Atreju”, il simposio annuale di Fratelli d’Italia). Al Forum di Baudet si deve la mozione approvata mercoledì scorso dal Parlamento olandese con cui sono stati definitivamente bocciati gli eurobond e si è intimato al governo di non approvare nulla che non fosse la rigorosa applicazione del cosiddetto Fondo “Salva stati”, il famigerato Mes. Fine.
Quello uscito ieri a tarda sera dalla riunione dei ministri dell’Economia, meglio noto come “Eurogruppo”, è un accordo frutto di un compromesso, che non è una parolaccia ma il sale della politica e deriva, etimologicamente, da “cum” e “promisso”, letteralmente “promesso insieme”. L’accordo dell’Eurogruppo viene salutato positivamente da chi si è speso per raggiungerlo, come il Commissario per l’Economia Paolo Gentiloni. E contestato da chi lo giudica inadeguato. Critiche legittime da parte di tutti, meno che da Salvini (e dalla Meloni), perché anche l’incoerenza politica ha un limite.
Dovranno essere i capi di governo a trasformare l’accordo in impegni vincolanti e, magari, migliorarlo. E’ quello che auspica il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Insieme al suo collega francese, Bruno Le Maire, ha presentato la proposta di un “Piano per la ripresa” da 500 miliardi di euro, nel quale rispunta l’ipotesi degli ormai famosissimi “eurobond”, diventati nel frattempo “recovery bond”. Arriveranno, questo è certo, 240 miliardi di euro attraverso il Mes, senza condizioni restrittive ma solo per sostenere i costi sanitari della Sars-Cov-2; altri 200 miliardi, per le imprese, dalla Bei, la Banca europea degli investimenti, più ulteriori 100 miliardi del progetto “Sure” contro la disoccupazione. Sicuramente pochi, ma che andrebbero letti, guardando al futuro, insieme agli altri 1.000 miliardi di euro, tra fondi europei e capitali privati da raccogliere, che l’Unione europea ha deciso di investire nei prossimi 10 anni per il Green new deal. Una scelta che il partito di Giorgia Meloni, a titolo di cronaca, ha chiesto di cancellare.
In questa sorta di alfabetizzazione accelerata a cui siamo costretti dall’isolamento in casa, siamo chiamati ad assimilare, ogni giorno, il significato di termini finora riservati solo agli “addetti ai lavori”. Dopo la pandemia, l’epidemiologia, lo smart working, la didattica digitale è la volta del bond, strumento finanziario per eccellenza. Anche in questo caso la spiegazione è abbastanza semplice: con un bond, in italiano un’obbligazione, si compra parte del debito di una società o di uno stato che si impegnano, con un contratto, a restituire, a una scadenza prefissata, la somma versata (il capitale) insieme agli interessi. Il bond può diventare “green”, se il capitale viene investito in aziende che rispondono a criteri di sostenibilità ambientale (su cui sempre l’Unione europea sta lavorando, per evitare truffe e speculazioni). Social, se invece si finanziano attività che generano benefici sociali misurabili (in questo caso si aggiunge anche il sostantivo impact). Euro, se a garantire la restituzione del capitale e il pagamento degli interessi non è un singolo Stato ma, appunto, l’Europa. Con i bond si corrono pericoli solo se la società o lo stato falliscono, ma si pagano interessi più alti se il “rating”, cioè la valutazione, del rischio peggiora. Per questo sarebbe stato importante se, di fronte al dramma del coronavirus, l’Unione europea avesse deciso di emettere gli eurobond. Significava che tutti i paesi accettavano di condividere la stessa valutazione del rischio, di fronte a un crollo dell’economia generalizzato e imprevedibile.
L’avrebbero dovuto fare un mese fa, quando era già evidente l’imminenza della catastrofe, sanitaria, economica e sociale. Ma io mi sento, da sempre, più cittadino europeo che solo italiano. E vorrei che l’Unione fosse davvero la nostra casa comune. Forse ci riusciremo, come auspica Stefano Zamagni in una bella intervista concessa ieri all’Osservatore Romano, intitolata “Il mondo che verrà”. Al giornalista che gli chiede chi potrà assumere la leadership dei processi innovativi indispensabili per costruirlo, Zamagni risponde così: “Prima di cercare il leader, devi creare le coscienze (…). Quando nelle persone inietti il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto”. Speriamo di riuscirci.
#quellocolbongo.